Gli economisti hanno considerato per anni la felicità come qualcosa che si potesse comprare: dopo la rivoluzione industriale l'accaparrarsi beni primari e, ancor di più, beni secondari è stato considerato un mezzo per il raggiungimento di un benessere psicofisico.
Quando poi a metà del secolo scorso (XX°) c'è stata la rivoluzione dei consumi, “tutti” siamo passati dal'essere consumatori all' essere iperconsumatori, dall'avere ciò che occorre per il sostentamento all' “avere sempre di più” o a desiderare d'averlo.
L'uomo ritorna ad essere cacciatore, ma questa volta va a caccia di esperienze emotive, di benessere, di marche e 'autenticità'. Ognuno di noi si sarà trovato a pensare che ottenendo quell'oggetto materiale sarebbe stato più felice. In realtà diversi studi sulla correlazione tra felicità e prosperità hanno verificato come oltre un certo reddito la felicità può addirittura diminuire.
Quindi la felicità non è direttamente prodotta dal benessere materiale, non può esserne una conseguenza così semplicistica, benché pubblicità e marketing vorrebbero ingannarci a riguardo per un loro fine puramente economico.
Negli anni 90 due grandi scoperte sulla ricerca della felicità mettono in crisi la comunità degli psicologi:
1- La felicità è in forte relazione coi geni
2- La felicità ha una debole relazione con l'ambiente
Seppur occorre considerare che geni e ambiente sono in relazione tra loro e che quindi indirettamente la nostra felicità è condizionata dagli ambienti (anche emotivi e mentali) che frequentiamo.
La felicità è comunque un concetto relativo, più avanti ne vedremo i paradossi, per ora basta dire che la “felicità è uno stato soggettivo, più che una condizione oggettiva." Da un certo punto di vista, la cosa è ovvia: non solo ci si sente felici, ma si è felici se ci si sente tali.
Possiamo probabilmente identificare la felicità con la realizzazione di se stessi, ma proprio perchè questa realizzazione non è mai compiuta, bensì prosegue continuamente, anche la felicità non è uno stato stabile.
Arriviamo a considerare quindi come il progetto di essere felici si scontri con tre paradossi, così come li ha indicati Pascal Bruckner:
- La felicità è un oggetto talmente fluido che finisce per confondere. Questo è il motivo per cui genera sia angoscia che seduzione, in sostanza non siamo mai del tutto convinti di essere felici.
-La felicità finisce nella noia e nell'apatia appena la si realizza. E' necessario riflettere sul fatto che molto tempo fa il concetto di felicità non veniva considerato, è iniziata una “preoccupazione della felicità” con l'avvento della “banalità”.
- La felicità elude la sofferenza al punto da non saperla fronteggiare. Cercando di eliminare il dolore senza comprenderlo, lo si reinstalla da qualche altra parte, anche nella comunità.
E' quindi inutile parlare di felicità? Ancor di più aspirare a raggiungerla? Certamente no.
Intanto comprendiamo bene che i media tradizionali e la pubblicità danno spettacolo di voluttà e spumeggiante felicità, ma io spettatore, consumatore posso ottenerla solo se compro questo, se faccio quello, se mi circondo di gadjet, se gioco il loro gioco. Già S. Agostino diceva che la ricerca della felicità per l'uomo sarebbe stata inconcepibile se in qualche modo non l'avesse già incontrata. Quindi bisogna capire che noi “siamo la felicità” fin dalla nascita, tutto ciò che non ci rende felici sono soltanto 'distrazioni' della nostra anima (responsabilità, carattere).
Quando non siamo felici è nostro dovere comprendere 'perché' e comprendere che “la responsabilità va ricercata nella nostra personale inadeguatezza” agli eventi che per loro natura si presentano a noi con una domanda non certo con delle risposte,ancor meno con delle certezze. Quali certezze? La certezza di essere sicuri in primo luogo: “L'insicurezza è divenuta una categoria diffusa nella ricerca sociologica e politica, perché è diventata mero strumento di manipolazione ideologica.”
Ciò vuol dire che non siamo noi, o almeno non del tutto, ma è nell'insieme che il sistema politico ed economico concorrono a questo stato perenne di insoddisfazione. Perchè avviene questo? Perché così consumiamo, ma se capiamo che iperconsumiamo per sopperire a bisogni indotti potremmo riappropriarci della nostra sicurezza della nostra felicità.
Giulietto Chiesa, anche europarlamentare, sostiene che solo il 25% delle sollecitazioni mandate dalla tv sono di tipo “informativo”, il resto è pubblicità e varietà. Se ci sottopiamo continuamente a influenze di questo tipo è normale che i nostri pensieri non possono “felicitarsi” di esplorare nuovi interessi, nuove modalità di vita.
La certezza va ricerca dentro se stessi e in relazione con gli altri.
Occorre avere una fondata fiducia in se stessi. Avere fiducia in se stessi è molto diverso dall'essere delle persone eccellenti, significa qualcosa di più profondo: la consapevolezza di poter essere migliori di come già siamo e quindi felici.
Nel compiere queste operazioni interiori “l'altro da noi” è essenziale perché la felicità è andata progressivamente prospettandosi come una funzione collettiva, anzi più specificatamente comunitaria: è nel comunicare e comunicarci agli altri che definiamo chi siamo e le nostre emozioni, nell'atto stesso della comunicazione c'è felicità. Felicità nello scambio.
Tant' é vero che è possibile comunicare un fatto spiacevole (infelicità di merito) e sentirsi meglio (felicità di metodo).
E' la pratica stessa della comunicazione che risulta felice per gli interlocutori che vogliono eseguirla.
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